giovedì 30 giugno 2022

Quel che resta della vecchia Croce su Monte San Nicola


Come forse qualcun ricorderà, nel marzo 2021, scrissi un post dedicato alla Croce e, poco tempo più tardi, nel maggio 2021, un altro post dedicato ai ragazzi che fecero l'impresa… di illuminare la Croce. Qualche settimana più tardi incontrai per caso Agostino Nuccitelli il quale mi disse che, abbandonati su Monte San Nicola, sono ancora visibili i resti della struttura metallica che componeva la vecchia Croce. Gli chiesi, se possibile, di vedere una foto di quel che mi stava illustrando e pochi giorni fa, tenendo fede alla parola data, Agostino mi ha inviato un paio di scatti di ciò che rimane della vecchia Croce di Scurcola Marsicana. Ovviamente si tratta di "rottami": parti metalliche, ormai corrose dalla ruggine e deformate dal tempo, che non interessano a nessuno.

Posizione dei resti della vecchia Croce

Eppure sono ancora lì, in un punto che Agostino mi ha indicato con un bollino rosso (vedi foto sopra), su un versante della nostra montagna. Evidentemente, nel 1974, quando la nuova Croce venne realizzata da alcuni artigiani scurcolani e issata sulla cima del Monte San Nicola, come riporta una targa presente ai piedi dell'attuale struttura, alcuni pezzi della Croce precedente furono abbandonati nei paraggi. Sono trascorsi alcuni decenni, ma le vecchissime lamine e aste di metallo restano tuttora "incastonate" tra le rocce della nostra montagna

Resti della vecchia Croce

Devo ringraziare Agostino Nuccitelli prima di tutto perché mi ha permesso di conoscere questi rugginosi resti di cui, personalmente, non sospettavo nemmeno l'esistenza. In secondo luogo, lo ringrazio per aver scelto di condividere con me un altro piccolo ma fondamentale frammento della storia del nostro paese.



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sabato 25 giugno 2022

La curiosa vicenda del puteale marmoreo di Giuseppe Barnaba


Di recente ho fatto visita ad Aulo Colucci il quale, come già accaduto in passato, mi ha fatto dono di una serie di interessanti documenti relativi alla storia di Scurcola, documenti che lui stesso ha raccolto nei passati decenni. Tra il materiale di Aulo ho rintracciato la copia di atti facenti capo alla Regia Soprintendenza alle Gallerie e ai Musei medievali e moderni per le province di Roma e dell'Abruzzo. Il primo documento è datato 30 Novembre 1913, oggetto: "Campi Palentini (territorio di Scurcola Marsicana) - Puteale marmoreo". Al suo interno si fa riferimento alla notizia che tra i ruderi dell'antica Abbazia cistercense di Santa Maria della Vittoria sarebbe stato ritrovato un importante resto marmoreo rappresentato da "un puteale in pietra granitica".

Il puteale, secondo la definizione che fornisce la Treccani, è un termine "usato, dagli storici dell'arte, soprattutto per indicare il parapetto, per lo più di marmo, rotondo o poligonale, che, con il diffondersi dei pozzi al centro di cortili, palazzi e chiostri, assume forme sempre più eleganti e complesse, con decorazioni a motivi architettonici e rilievi scolpiti, fino al sec. 16°, quando il suo uso si dirada per il prevalere delle fontane". Dal documento del 1913 si traggono alcune caratteristiche del puteale rinvenuto: "leggera inclinazione a tronco di cono, alto cm. 48 ed avente nell'alto un diametro di luce interna di cm. 39 e un diametro totale di cm. 60. Figure di guerrieri e altre forse di uomini che attendono a lavori campestri sono scolpite all'ingiro: cattivo è lo stato di conservazione". Il soprintendente che firma il documento, Federico Hermanin, ritiene che l'opera possa essere contemporanea alla costruzione dell'Abbazia, quindi risalire alla fine del XIII secolo, e propone di spostare il puteale presso il museo di Castel Sant'Angelo a Roma.

La "questione" del puteale rintracciato a Scurcola procede anche nell'anno successivo. In un altro documento del 2 marzo 1914 Hermanin invia al Ministero quanto segnalato dal Regio Ispettore Onorario di Avezzano il quale ha incontrato i fratelli Di Clemente, proprietari dei terreni su cui sorgeva l'antica Abbazia eretta per volontà di Carlo I d'Angiò. Le dichiarazioni dei Di Clemente sono eloquenti: "essi non hanno né pretendono affacciare nessuna ragione di proprietà sul predetto puteale perché questo non è stato rinvenuto nel loro fondo (ove in realtà nessuno scavo è stato eseguito) ma vi fu portato mesi addietro da un certo Giuseppe Barnaba, della vicina Scurcola Marsicana, persona alquanto sospetta in queste materie perché in corrispondenza con invettatori di anticaglie". Il soprintendente, comunque, continua a ritenere l'oggetto "di notevole interesse artistico" tanto che, il 24 marzo del 1914, viene disposto di darne comunicazione a Giuseppe Barnaba e di fare in modo che il puteale venga conservato presso la casa comunale di Scurcola Marsicana. Il 26 marzo 1914, con un atto vergato a mano, si autorizza a trattare con Giuseppe Barnaba per l'acquisto del puteale "per una somma inferiore alla richiesta di lire cinquecento" e si specifica anche che "Se il Barnaba non vorrà acconsentire ad una riduzione di tale somma dovrà al più presto provvedere al ritiro del puteale in un luogo nel quale sia preservato dalle intemperie".

Puteale marmoreo (Gabinetto Fotografico Nazionale)

Fin qui la storia attestata dai documenti, poi subentra un altro racconto, quello che ci ha lasciato Ennio Giuseppe Colucci, detto Peppino. Tra le pagine de "I miei ricordi" [1], infatti, Peppino Colucci richiama la figura di Giuseppe Barnaba, meglio noto a Scurcola come don Peppe Barnaba, personaggio scurcolano qui descritto come "un pittore, uno scultore, un musicista, ma soprattutto uno spirito bizzarro". Secondo quanto ci ha trasmesso Colucci, don Peppe Barnaba aveva provato a vendere il suo puteale a colui che diventerà il futuro re d'Italia, Vittorio Emanuele III, durante una visita di quest'ultimo presso i ruderi dell'Abbazia a fine Ottocento. Il soprintendente, però, non si fidava affatto di Barnaba. Scrive Ennio Giuseppe Colucci: "Le pietre erano state scolpite dal Barnaba stesso nel suo orto presso la scuola [si tratta della scuola sotto l'Arco Ansini, NdR]; e per dare ad esse una certa patina di antichità, finita la scuola, chiamava gli scolari a fare sulle pietre la pipì".

I dubbi sul puteale marmoreo sono molti e resteranno, temo, insoluti. Che fine ha fatto questo oggetto? Venne rinvenuto veramente dal Barnaba oppure fu un falso storico che lui tentò di far passare come autentico? Sarà mai stato portato presso la casa comunale? È possibile che i tecnici della Soprintendenza siano stati così sprovveduti da ritenere di grande valore storico e artistico un oggetto creato ad arte da uno scurcolano? Di certo la figura di Peppe Barnaba è piuttosto ambigua e mi spiace che di lui, oggi, a Scurcola, nessuno sappia più molto.



Note:
[1] Ennio Giuseppe Colucci, I miei ricordi, in Questa Marsica a cura di Romolo Liberale, Edizioni dell'Urbe, Roma, 1981, pp. 39-50.



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lunedì 20 giugno 2022

Anno 1928: demolizione del Convento dei Cappuccini


Il Convento dei Cappuccini, a Scurcola, non esiste più. Di questo luogo che pure ha rappresentato, fin dal 1590, un punto di riferimento per la vita religiosa, formativa, spirituale e monastica del nostro territorio, oggi restano solo alcune labili tracce: qualche muro, un perimetro più o meno definito, un elenco di oggetti riassegnati ad altri, i documenti storici che ne attestano le origini e un toponimo che, nonostante tutto, continua ad essere utilizzato per designare quel colle a cui solitamente si giunge dopo aver raggiunto e oltrepassato la Quercia di Donato. Dopo il conseguimento dell'Unità d'Italia, con un decreto piemontese del 7 luglio 1866, veniva ordinata la soppressione di tutti gli ordini religiosi ai quali, neanche a dirlo, si andavano ad espropriare beni e conventi. Così si sancì, dopo secoli, la scomparsa del Convento dei Cappuccini di Scurcola Marsicana.

L'ultimo drammatico evento che ne ha definitivamente compromesso l'esistenza, anche strutturale, è il terremoto del 13 gennaio 1915. In un documento conservato presso l'Archivio di Stato [1] si riporta una delibera del Comune di Scurcola del 1923 che recita: "In seguito al terremoto del 13 gennaio 1915 il vecchio fabbricato già convento dei Cappuccini con l’annessa Chiesa riportava gravissimi danni, tali da doversi considerare distrutto agli effetti dei benefici di legge. Analogamente il muro di cinta del cimitero rimaneva gravemente danneggiato, per cui fin dalla prima epoca del disastro tellurico si ritenne indispensabile provvedere ad una riparazione sia pure sommaria del medesimo onde ovviare ad un indecoroso stato di abbandono, assolutamente incompatibile con quel civico senso di religione che costituisce il culto sacro dei morti. Con il crollo della Chiesa [di Santa Maria del Colle, NdR] e degli altri fabbricati adiacenti al vecchio convento vennero a mancare la cappella mortuaria e l’ossario, per cui uno stato di grave disagio venne a determinarsi in tutto il servizio necroscopico".

Resti del Convento dei Cappuccini di Scurcola

La pesante scossa, come attestato, arrecò danni giudicati irreparabili che, a distanza di diversi anni, indussero gli amministratori del tempo a decretare la demolizione del Convento. Nello specifico, l'atto comunale recante "Demolizione del Convento dei Cappuccini distrutto dal terremoto. Concessione dei lavori a Comi Angelo e Villa Giuseppe" risale al 30 luglio del 1928. Erano trascorsi più di 13 anni dal sisma e il podestà Vitantonio Liberati intervenne con urgenza per risolvere una situazione che riteneva, evidentemente, insanabile. Ai nostri occhi la scomparsa definitiva del Convento rappresenta, ancora oggi, una grave perdita, ma è anche ragionevole ritenere che, nel 1928, non vi fosse alcun interesse a recuperare un edificio ormai disabitato da decenni e pericolante a causa del terremoto.

Il dispositivo del 1928 recita: "detta demolizione si presenta indispensabile anzitutto a tutela della pubblica incolumità in quanto l'intero fabbricato minaccia rovina con grave pericolo per me numerose persone costrette ad attraversarlo per recarsi nell'interno del cimitero, in secondo luogo per rendere libera l'area ove dovranno sorgere nuovi locali del restaurato cimitero". Il cimitero di Scurcola, infatti, negli anni Venti, è ancora custodito nel perimetro dell'area conventuale e, da quanto viene esplicitato, all'epoca, si riteneva che l'area sarebbe stata adibita ai nuovi locali del cimitero restaurato, cosa che non è mai avvenuta: il cimitero del paese venne realizzato da lì a qualche anno dove si trova tuttora. 

Tracce delle mura perimetrali del "camposanto vecchio"

La perizia preliminare risulta essere eseguita dall'ing. Luigi Figà Talamanca mentre i lavori sono affidati, tramite trattativa privata, ai signori Angelo Comi e Giuseppe Villa, "operai specializzati in materia di demolizione", per lire 4.500. Veniva disposto, inoltre, che l'opera doveva essere ultimata entro il 15 settembre 1928 e che "ogni oggetto di pregio o meno, di interesse artistico o storico che nel corso dei lavori venisse alla luce dovrà essere immediatamente consegnato al rappresentante del Comune".



Note:
[1] Archivio di Stato di L’Aquila, Sottoprefettura di Avezzano, Affari speciali dei Comuni, b.268, fasc. 12.




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mercoledì 15 giugno 2022

Il testamento di Antonio Rocco e le discordie di famiglia


Il testamento di Antonio Rocco (o Rocchi) è un documento noto da tempo. È stato pubblicato integralmente, ormai parecchi anni fa, all'interno di "Scurcola Marsicana… ove senz'arme vinse il vecchio Alardo" di Tito Spinelli [1]. Di recente ho rinvenuto online un'altra copia dello stesso testamento nella raccolta degli "Atti del Reale Istituto Venero di Scienze, Lettere ed Arti", pubblicata a Venezia il 21 febbraio 1892. All'interno di questo antico e corposo volume vi è una sezione dedicata agli "Oppositori di Galileo" curata da Antonio Favaro (Padova 1847-1922) matematico e storico della scienza, curatore dell'edizione nazionale delle Opere di Galileo Galilei. Ovviamente il primo capitolo degli "Oppositori" è dedicato al nostro Antonio Rocco.

Favaro ricostruisce, con discreta meticolosità, la disputa filosofica tra Rocco e Galileo mettendo immediatamente in luce un dettaglio: "noi pensiamo che il Rocco debba la sopravvivenza del suo nome a quest'unica causa, dell'aver Galileo raccolte le di lui opposizioni". In sostanza, secondo Favaro, se Antonio Rocco non fosse entrato in polemica col Galilei, non sarebbe stato ricordato da nessuno. Sappiamo tutti che la Storia e la Scienza hanno dato ragione a Galileo e torto a Rocco, ma nel Seicento la discussione scientifica non era così chiara come appare oggi, a circa quattrocento anni di distanza. Il matematico e storico Favaro, dunque, dopo aver spiegato l'evoluzione della controversia, pubblica, in appendice, il testamento di Antonio Rocco.

Ritratto di Antonio Favaro

Il testamento, come si evince dalla raccolta degli "Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti" è conservato presso l'Archivio di Stato di Venezia, Sezione Notarile, Notaio Claudio Paulini, B.a 798 dei Testamenti. Antonio Rocco stilò il suo testamento il 23 novembre 1650, "giorno di Mercordì, ad ore sette di notte". Il filosofo scurcolano morirà a Venezia nel marzo del 1652, quindi un anno e mezzo più tardi rispetto alla compilazione del suo testamento. Dall'atto si evince come Antonio Rocco, "figliuolo di Fabio Medico e Filosofo di gran nome", mantenga vivo un legame con la sua famiglia di origine, rimasta a Scurcola, verosimilmente presso l'abitazione in via delle Scuole n. 28, come ho già scritto in passato.

Tra le varie disposizioni, Rocco stabilisce che parte dei suoi danari (millequattrocento da lire 6, soldi 4 l'uno) vengano spediti a "Scurcola di Abruzzo mia patria […] in mano di Fabio Rocco mio nipote". Nello specifico: "Dei sopradetti mille quattrocento ducati ne siano mille di esso Fabio, communi però anco ai suoi figliuoli legittimi naturali. Dei quali darà al Dottor Francesco Rocco mio fratello e suo padre (se sarà vivo) un ducato". Le decisioni di Antonio Rocco in merito alla spartizione della propria eredità sono piuttosto rigide e da esse si rileva chiaramente che tra i due fratelli Antonio e Francesco di certo non correva buon sangue. Ad attestarlo il fatto che Antonio, in previsione della sua dipartita, voglia lasciare una cospicua somma di denaro al nipote Fabio e ai suoi discendenti, ma un solo ducato a suo fratello Francesco.

Frontespizio "Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti"

Dal testamento si ricava che Francesco fosse sposato con una certa Camilla Marcotij e che, oltre a Fabio, i due avessero altre due figlie, delle quali non viene esplicitato il nome, alle quali il cappuccino filosofo lascia cento ducati ognuna. L'astio di Antonio Rocco nei riguardi di suo fratello Francesco si rileva, in modo particolare, da questo passaggio testamentario: "Riconoscano essi miei nipoti questi segni di benevolenza non da alcuni loro meriti, o mie obbligationi, ma da un atto di mera carità, e sappiano che il resto che già gli era stato destinato gli l'ha tolto suo padre". I nipoti, dunque, possono ricevere in eredità somme di denaro per spirito di pura carità da parte dello zio il quale, con una stoccata micidiale, all'interno del proprio testamento, spiega che il "resto", quindi un'altra parte dell'eredità che i nipoti avrebbero potuto ricevere, era stata sottratta loro dal padre Francesco.

Sarebbe interessante sapere cosa avesse fatto di così grave Francesco, anche se viene facile immaginare (e pura immaginazione è la mia) che il fratello rimasto a Scurcola, sposato e con tre figli, sia riuscito ad amministrare e prendere possesso di beni e proprietà che, forse, Antonio reputava anche suoi. Il problema è che Antonio Rocco è rimasto lontano dal suo paese praticamente per tutta la vita: ha studiato inizialmente presso l'Università di Perugia, poi a Padova e, infine, si è trasferito a Venezia. Non è dato sapere quante volte sia tornato a Scurcola ma, considerati i tempi, si può presumere pochissime. In ogni caso, anche grazie alle sue volontà testamentarie, si capisce che il filosofo non abbia dimenticato Scurcola. Infatti, in un passaggio successivo, egli destina cento ducati ai Padri Cappuccini della Scurcola dove, con buone probabilità, aveva studiato nel corso della sua infanzia.


Note:
[1] Tito Spinelli, "Scurcola Marsicana… ove senz'arme vinse il vecchio Alardo", Pro-Loco di Scurcola Marsicana, 1993.
[2] "Atti del Reale Istituto Venero di Scienze, Lettere ed Arti", Tomo L, Serie Settima, Tomo Terzo, Dispensa Prima e Seconda, Tip. di G. Antonelli, Venezia, 1892.



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venerdì 10 giugno 2022

Il corrispondente de "La Tribuna" che arrivò a Scurcola subito dopo il terremoto del 1915


Si intitola "Una notte tra le tombe della città scomparsa. Il disastro d'Avezzano descritto dal nostro inviato". Si tratta del reportage del giornalista Tullio Giordana, pubblicato sul quotidiano "La Tribuna" il 15 gennaio 1915. Giordana venne inviato ad Avezzano poco dopo la terribile scossa che devastò l'intero territorio marsicano. Prese il treno da Roma e, nel suo lungo e dettagliato articolo, racconta quel che vide e ascoltò nel corso del viaggio verso le aree devastate dal sisma. Tra le diverse località attraversate, Giordana ebbe modo di soffermarsi anche a Scurcola e ci ha trasmesso una breve ma significativa descrizione di quel che vide e di quel che seppe:

La stazione di Scurcola non c'è più: ma il capostazione che non ha lasciato il servizio mi spiega come fu gettato dal terremoto fra i binari, e, come ha potuto, contuso ma vivo, salvare tutti i suoi illesi sotto un soffitto che aveva miracolosamente - è l'avverbio che ripetono gli scampati - fatto capanna. Di fianco alle rovine informi della stazione è acceso un fuoco, e una baracca si inizia già. Qualche decina di persone vuol salire a tutti i costi sul treno per raggiungere Sulmona o da Avezzano discendere a Roma: si racconta che nel caffè di Stefano Garzia vi sono stati tre morti e parecchi feriti tra cui un negoziante romano venuto a comprar mele. È morta la moglie di un certo Nocedelli, e sono morti i suoi bimbi. Nella casa di Andrea De Angelis sono sepolti il figlio e la moglie. È scomparso Francesco Corazza. Cappelle e Magliano sono distrutte: il dottor Di Giacomo medico condotto del luogo, ha curato tutti ed è poi andato a Cappelle perché il suo collega di lì aveva una spalla spezzata. Si raccolgono i feriti: la vettura di soccorso entra in funzione. Più alto del ritmo del treno, disuguale perché la linea è malandata, si sente a tratti uno strillo lacerante.

Tullio Giordana ci ha lasciato un brevissimo racconto, sommario ma estremamente vero e drammatico, di ciò che riuscì a raccogliere in merito ad alcune vittime e ai pesanti danni che il terremoto aveva causato a Scurcola. Lo sgomento e l'angoscia di chi è sopravvissuto, come il capostazione di Scurcola del tempo, sono reali e tangibili. Il nome di Stefano Garzia è ben noto agli scurcolani grazie ai suoi discendenti che hanno portato e portano il suo stesso nome. Nel 1915, dunque, Stefano gestiva un caffè che, evidentemente, crollò causando la morte e il ferimento di diverse persone.

Si fa riferimento a "un certo Nocedelli" ma ritengo di poter affermare, con discreta sicurezza, che "Nocedelli" sia l'errata trascrizione del cognome scurcolano "Nuccetelli": costui perse la moglie e i figli. Lutto grave anche per l'Andrea De Angelis citato. Il dottor Di Giacomo è Oreste Di Giacomo che per diversi decenni fu medico condotto di Scurcola. Evidentemente il terremoto lo aveva lasciato incolume ed ebbe modo di soccorrere e curare chi, invece, venne ferito dai crolli. Il collega di Di Giacomo con la spalla spezzata era il dott. Andrea Di Pietro che, in quegli anni, per l'appunto, operava a Cappelle. Apparentemente quelli descritti da Tullio Giordana potrebbero apparire come dettagli minimi, quasi insignificanti, invece ci permettono oggi di percepire limpidamente quale potesse essere il clima di smarrimento, di desolazione e di sofferenza che i nostri concittadini scurcolani vissero in quello spaventoso momento della nostra storia.



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domenica 5 giugno 2022

Tela di San Luca di Luigi Giannantonj (1862)


Nella piccola e deliziosa chiesa di Sant'Egidio di Scurcola Marsicana è custodita, tra le altre, una tela dipinta a tempera dall'artista tagliacozzano Luigi Giannantonj che raffigura San Luca. Si trova di fronte al dipinto di Sant'Egidio (eseguito dallo stesso Giannantonj nel 1868) e si trova nell'altare laterale destro, in pietra bianca, quasi del tutto identico a quello di Sant'Egidio. La firma del pittore è collocata dietro la tela, in basso a sinistra: "Giannantony Luigi fece 1862". Si tratta, dunque, del terzo dipinto firmato da Luigi Giannantonj presente a Scurcola dopo, per l'appunto, quello dedicato a Sant'Egidio (1868) e quello di Santa Anatolia (1855), accolto nella Chiesa della Madonna della Vittoria.

Altare con la tela di San Luca

Sul fatto che la tela rappresenti San Luca evangelista non ci sono dubbi, anche se qualcuno ha ritenuto, erroneamente, che poteva trattarsi di San Matteo (anch'egli evangelista). Un tempo nella piazza antistante la chiesa, il 21 settembre, si teneva la fiera di San Matteo che oggi, purtroppo, è totalmente sparita dagli appuntamenti della tradizione scurcolana fino ad essere quasi del tutto dimenticata. Nello scrivere questo post mi sono domandata se ci sia una connessione tra l'errata interpretazione della tela e la fiera di San Matteo. Di sicuro il santo raffigurato dal Giannantonj è San Luca e non San Matteo. Ad attestarlo con certezza la presenza, non trascurabile, del toro (o vitello o bue) emblema dell'evangelista.

Il toro dietro alla figura di San Luca

L'immagine simbolica che la tradizione cattolica (e anche pittorica) attribuisce a San Luca è, infatti, quella del vitello o del toro o del bue che evoca i sacrifici del tempio di Gerusalemme coi quali si apre il Vangelo lucano. Il primo personaggio citato da Luca nel suo Vangelo, infatti, è Zaccaria, padre di Giovanni il Battista, ma anche sacerdote del tempio, responsabile del sacrificio dei tori. Se si fosse trattato di San Matteo evangelista, probabilmente, il Giannantonj lo avrebbe rappresentato con il simbolo che lo contraddistingue, ossia l'angelo. Tra le opere d'arte più famose e amate dedicate a San Matteo c'è quella eseguita dal Caravaggio, "San Matteo e l'angelo", custodita presso la Cappella Contarelli nella splendida chiesa romana di San Luigi dei Francesi.

L'angelo che parla a San Luca

È pur vero che in alto a sinistra, nel "nostro" dipinto di San Luca, si può rilevare la figura di un piccolo angelo che, evidentemente, sta suggerendo all'evangelista le parole che poi lui riporterà nei suoi scritti sacri. Forse è stato tale dettaglio, ossia la presenza dell'angelo, a confondere gli osservatori inducendoli a ritenere che si trattasse di San Matteo. In realtà la presenza davvero poco casuale e tutt'altro che irrilevante del toro, posto dietro a San Luca attesta che, per l'appunto, siamo in presenza dell'evangelista di Antiochia protettore dei pittori, degli scrittori, dei medici e dei notai le cui spoglie, secondo la tradizione, sono custodite nella basilica di Santa Giustina a Padova.



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Il filosofo Antonio Rocco tra “Le Glorie degli Incogniti” (1647)

Siamo nella Venezia del Seicento, la città più cosmopolita della penisola. Giovanni Francesco Loredan ha solo 27 anni quando, da giovane no...